di Benedetta Invernizzi
“Black Mamba #24” aveva quarantuno anni il 26 gennaio 2020, quando fu coinvolto in un incidente mortale in elicottero in California insieme alla figlia Gianna e altre sette persone. Tutto il mondo della pallacanestro – e non solo – porta con sé il ricordo di quel giorno
Sono passati cinque anni dall’incidente in cui perse la vita Kobe Bryant insieme alla figlia Gianna e altre sette persone, quando l’elicottero su cui erano a bordo precipitò schiantandosi a Calabasas, in California. La leggenda NBA aveva quarantuno anni e tutto il mondo della pallacanestro (e non solo) continua a ricordare quel giorno.
Kobe aveva una relazione speciale con il nostro Paese. In Italia trascorse l’infanzia, coltivando dei legami che segnarono la sua vita e che non si persero nemmeno quando divenne “Kobe Bryant” – la stella dei Los Angeles Lakers. Nel 1984 suo padre Joe Bryant, anche lui cestista, venne a giocare in Italia portando con sé la famiglia. Qui restarono fino al 1991 ed è proprio durante quegli anni che Kobe ebbe l’opportunità di conoscere da vicino alcune città italiane dove il basket, ancora oggi, scorre nel sangue degli abitanti, come Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia.
Tanto è vero che nel nostro Paese prese forma il suo grande amore: il basket. Nei 7 anni vissuti in Italia (dai 6 ai 13 anni) Bryant imparò i fondamentali della pallacanestro, che l’avrebbero poi avvantaggiato nei parterre statunitensi e accompagnato durante tutta la sua carriera. Kobe, nonostante fosse ancora piccolo, grazie al suo talento già eccelleva tra i più grandi.
“Se Kobe è diventato il giocatore che è oggi, lo deve soprattutto all’Italia: in America si salta e si corre, ma pochi conoscono i fondamentali del gioco” ha affermato Joe ‘Jellybean’ Bryant, il papà, deceduto la scorsa estate.
Selezionato al Draft NBA appena terminati gli studi nel 1996, Kobe Bryant fu nominato All-Star 18 volte sulle 20 stagioni giocate con i Los Angeles Lakers, la sua squadra del cuore con cui vinse ben cinque titoli. Nel 2006, contro i Toronto Raptors, concluse una partita con 81 punti segnati, un record battuto solo da Wilton Norman Chamberlain, e nella stagione 2007-8 vinse il primo titolo di MVP, il “giocatore di maggior valore”. Eletto MVP delle finali dei playoff sia nel 2009 sia nel 2010, mostrò il suo talento anche sui parterre internazionali, portando, nel 2008 e nel 2012, le medaglie d’oro olimpiche negli Stati Uniti. Rimane uno dei pochi cestisti ad avere oltrepassato i trentamila punti a stagione e, dal 2020, è un volto della Basketball Hall of Fame, il memoriale della gloria.
Questa carriera è stata accompagnata dai numeri di maglia 8 e poi 24, e da un soprannome inconfondibile: “Black Mamba”. Bryant si autoassegnò questo appellativo ispirandosi al film del 2004 di Quentin Tarantino “Kill Bill – Volume 2”, associando la propria figura e il modo di porsi nei confronti degli avversari a uno dei serpenti africani più letali del pianeta.
“Black Mamba” non era solo un soprannome emblematico, ma rappresentava una vera e propria mentalità vincente, supportata e trasmessa dal campione durante tutta la sua carriera sportiva. Kobe ne era l’esempio vivente e, attraverso il suo essere, è riuscito ad ispirare milioni di persone, da appassionati cestisti a tutti coloro che perseguono un obiettivo con determinazione e sacrificio. “Una volta che sai cosa significhi fallire, la determinazione insegue il successo” – diceva. Questa filosofia di vita sprona a focalizzarsi su ciò che realmente si vuole e confidare nel duro lavoro. Rispetto della disciplina, costante voglia di migliorarsi e fiducia anche dopo un fallimento sono presupposti fondamentali. Il talento da solo non basta, sono necessari l’allenamento, lo sforzo, l’ossessione per i dettagli e il coraggio di sbagliare per poter raggiungere la migliore versione di sé.
Phil Jackson, celebre ex-allenatore dei Los Angeles Lakers, una volta raccontò: “Puoi alzare l’asticella a 2.50 metri e dire: ‘Nessuno ha mai saltato così in alto’. Ma Kobe ti risponderebbe: ‘Io posso farcela’. E si metterebbe subito a provarci”.
Michael Jordan era un idolo e un modello per Kobe Bryant e i due hanno condiviso quattro stagioni, le ultime due di MJ con la maglia dei Bulls (1996-98) e quelle dopo il suo secondo ritorno nella lega con i Washington Wizards (2001-03). Fu proprio lui a tenere un commovente discorso allo Staples Center in ricordo dell’ex giocatore dei Lakers, ripercorrendo degli episodi condivisi insieme.
Quando Michael Jordan, nel 2003, si ritirò dalla pallacanestro disse: “Lascio l’NBA in buone mani: così tante grandi stelle ancora in campo, così tante grandi stelle che stanno emergendo e giocando” – “Penso che Kobe (Bryant) sia un ragazzo che potrà davvero arrivare in prima linea”. Bryant, nel tempo, ha dimostrato a tutti il suo valore ed è riuscito ad appassionare generazioni di tifosi. Dopo cinque anni dalla sua scomparsa i parterre americani e le “stelle emergenti” NBA (di oggi) continuano a conservare il suo ricordarlo con ammirazione e stima.
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