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Le protagoniste del film “FolleMente” di Paolo Genovese si raccontano. Fogliati è la “lei” di una coppia nascente, il suo “lui” è Edoardo Leo. Spiega Pilar: «Quattro colleghe per incarnare gli stati d’animo di una donna?! Poche, le mie non starebbero in un campo da calcio… In me prevale la razionale Alfa/Pandolfi. Ma se potessi vorrei essere Trilli/Fanelli, a tutto Eros»
Da sinistra: Vittoria Puccini, Emanuela Fanelli, Pilar Fogliati, Maria Chiara Giannetta, Claudia Pandolfi. Al centro, il regista Paolo Genovese
Tu chiamale, se vuoi, emozioni. Stati mentali che condizionano i nostri comportamenti, sfumature della personalità spesso in conflitto tra loro, in un dialogo che può prendere la forma di uno scontro, un’intesa, persino una paralisi. E che, in occasione di un primo appuntamento con un potenziale partner, possono fare la differenza. Tra lieto fine o disastro totale. Paolo Genovese le ha chiamate Alfa, Trilli, Scheggia, Giulietta, ovvero Claudia Pandolfi, Emanuela Fanelli, Maria Chiara Giannetta e Vittoria Puccini. Tessere del puzzle che si agita nella mente di Lara (Pilar Fogliati), single trentenne appassionata del suo lavoro. Così come in quella di Piero (Edoardo Leo), di qualche anno più grande, matrimonio alle spalle e figlia a carico, si agita un quartetto di stati d’animo che rispondono ai nomi di Valium, Eros, Romeo e Il Professore (Rocco Papaleo, Claudio Santamaria, Maurizio Lastrico e Marco Giallini).
Sono i protagonisti della nuova commedia corale del regista di Perfetti sconosciuti, FolleMente, in sala dal 20 febbraio.
«Quante personalità abbiamo? Quanti scontri avvengono nella nostra mente quando questa decisione è scomoda, complicata, destabilizzante o rischiosa?». Genovese si immagina il nostro cervello come «una stanza piena di oggetti, giocattoli, schedari, ricordi fotografie e tutto quello che si accumula nella nostra testa durante una vita intera». Una stanza popolata da moltitudini. Più di quattro, nel caso di Pilar Fogliati, assicura a 7 l’attrice romana. «Le mie non entrano neanche in un campo di calcio, spero che crescendo diminuiscano. Penso che Alfa, la parte razionale sia quella che prevale, però mi sento anche pucciniana, un po’ Giulietta e pure anarchica come Scheggia. Se potessi vorrei essere solo Trilli/ Fanelli, la versione femminile di Eros. Ma poi mi sento anche tenera come il Romeo di Lastrico». Si sente, dice Fogliati che per scrivere il film Genovese ha deciso di chiamare in supporto degli alleati: Isabella Aguilar, Lucia Calamaro, Paolo Costella e Flaminia Gressi.
Pilar Fogliati con Edoardo Leo
«Qui non si tratta delle emozioni come in Inside Out. Parliamo di adulti, individui strutturati, meno semplici e freschi di un bambino. Abbiamo avuto a che fare con la psicanalisi, conosciamo i termini per descriverci, li usiamo nel nostro quotidiano. Ce lo diciamo da soli: è la mia parte razionale che prende il sopravvento… Soprattutto nella mia generazione siamo abituati a guardarci dentro, a interloquire con l’inconscio. O magari a convincerci che lo stiamo facendo».
Non esiste un modo di pensare “maschile” e uno “femminile” perché la biologia è probabilità (non necessità)
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È la prima sera insieme, per Lara e Piero. «A casa di lei. Sono di fronte alla meravigliosa opportunità dell’innamoramento. Ma si complicano le cose da soli». Il primo appuntamento, la più classica delle situazioni da romcom («Il genere più bello del mondo»). «È l’apoteosi del mostrarsi, è un balletto del farsi vedere, di mettere in primo piano il lato migliore. Però anche con la voglia di sentirsi a proprio agio». Un rito a suon di stati d’animo. «I salutini, l’imbarazzo iniziale dei convenevoli, le domande un po’ più intime per mostrarsi sensibili, si arriva al bacio, magari si fa l’amore. Poi ci si rilassa e arriva il fatidico momento: dormo qui o vado via?». Una bella rappresentazione del reale, dice Fogliati. «Chi come me è tra i 30 e i 40 anni, ci si riconoscerà. Da un lato ci credi che potrebbe essere la volta giusta, è il tuo Big One, l’amore vero. Però poi il cinismo ti blocca. E la paura di rinunciare alla propria libertà, mettere in secondo piano i nostri bisogni e passioni. Il contrasto tra romanticismo e cinismo è il segno dei nostri tempi». Parla di sé. «Ci sono cascata in pieno. Da un lato vorrei una famiglia, trovare la persona perfetta eccetera eccetera. Dall’altro sono gelosa della mia routine perfetta. E ai primi appuntamenti mi detesto, mi fingo diversa. Ma questo mostrarsi falsi a me sembra una cosa tenera. Che fa ridere anche nella vita. Come le pippe mentali che ci facciamo tutti sul sesso, quando l’unica cosa sensata sarebbe l’ascolto dell’altro».
La Alfa di Claudia Pandolfi la fa molto semplice. Un mantra granitico il suo: non facciamoci fregare dall’istinto. «Sono una donna supercorazzata, meno male solo un aspetto di Lara», commenta ridendo. «Alfa vuole essere al centro di tutto, dominare sulle altre anime e questo crea molti conflitti». E molte situazioni comiche. «Mi ci sono trovata a mio agio, lo ammetto, mi è piaciuta la sua radicalità, così assertiva e anche un po’ disturbante». Pure dentro di lei, vive una Alfa. «Ma quando tutte le tue personalità mostrano la stessa potenza, diventa ingestibile. Penso che crescere sia capire a chi dare voce. C’è spazio per tutte. Secondo me bisogna anche un po’ proteggerle le nostre diverse anime. Con le loro contraddizioni». Senza modificare nulla, sostiene. «Meno che mai censurare. Diventano sfumature importanti che ci contraddistinguono». Riflette sul fatto che con gli anni, nella vita privata e nel lavoro ha conquistato lo spazio per le sue emozioni: «Ho messo il mio lavoro al servizio della mia emotività. Ha funzionato».
Il suo personaggio si affida di continuo a citazioni di una delle più influenti teoriche del femminismo, Carla Lonzi. «Credo che l’idea sia arrivata da una sceneggiatrice, l’ho trovata calzante. Per lei le parole di una delle più lucide femministe sono la Bibbia. È il riflesso del bisogno che abbiamo avuto come donne di tirare fuori una grinta assoluta. Quel femminismo così radicale è stato necessario». Il suo oggi è ammantato di ironia. «La cosa intelligente del film è giocare molto liberamente sugli stereotipi, ridere anche sul sesso». Tutte insieme, appassionatamente. Un collettivo di attrici, in totale sintonia. «Vittoria la conosco da sempre, ma non avevamo mai lavorato insieme, Maria Chiara è una bella scoperta. Con Fanelli ci siamo conosciute grazie a Paolo Virzì e non ci siamo più lasciate: la mia nuova meravigliosa amica del cuore. Stavamo in banco insieme. Ci chiamano le Pandelli».
«In effetti su questo set è nato l’idillio, abbiamo fatto abbastanza le matte. Una meraviglia per tutte noi. Si dà per scontato che le donne si scannino, secondo una retorica stantia, Eva contro Eva, mentre i maschi fanno squadra. Nulla di più fasullo», dice Emanuela Fanelli. È Trilli, «libera, irriverente, leggera e sarcastica, la versione femminile di Eros», la descrive Genovese. L’attrice non ha fatto fatica a capire cosa intendesse. «Lei è la parte istintiva, che vuole alleggerire e cogliere l’attimo. Anche a costo di fare stupidaggini». Ironia e autoironia su tutto per Trilli. Sesso compreso. «Al primo appuntamento siamo tutti meno spontanei, lo spunto comico sta proprio nel divario tra ciò che mostri e ciò che senti. Si teme il giudizio dell’altro, ma le prime a essere severe siamo noi». Il sesso crea ansia.
«Uomini e donne la sentono ugualmente anche se in modo diverso. Per i maschi è un’ansia un po’ performativa, diciamo così. Noi tendiamo a interpretare i loro comportamenti. Cosa starà pensando? E lì scatta l’aspetto ridicolo. Perché magari ci immaginiamo che lui rifletta sul senso della vita, invece, non per sminuire la mente maschile, spesso sono, diciamo, pensieri elementari». Una stanza affollata di cose e persone il cervello di Lara. «Il mio? Una distesa deserta sferzata dal vento che trasporta balle di fieno…».
Al cuore della sua Giulietta non si comanda. Sembrerebbe il ritratto di Vittoria Puccini quello delineato dal regista. «Ingenua, sognatrice, romantica, nei suo colori pastello un po’ anni Novanta». Invece. «Sui colori ci siamo. Il resto fino a un certo punto – fa notare la diretta interessata –. Se chiedete al mio compagno vi direbbe che no, non mi corrisponde. Diciamo che la Pandolfi/Alfa che è in me è molto presente ma cerco di mollare». Giulietta le fa simpatia. «Lei crede nella possibilità dell’amore, di costruire qualcosa con un’altra persona. Vorrebbe buttarsi, anche a costo di fare un salto nel buio. Il suo è un invito a uscire dalla nostra comfort zone, a lasciarsi stupire dalla vita, anche se può riservare sofferenza». Va controcorrente. «Le sue compagne di avventura non la assecondano, lei alza la voce. Il suo romanticismo va a braccetto con una bella determinazione.
Il suo alleato sta nella mente di Piero, è il Romeo di Maurizio Lastrico. Mi piace l’idea del film che non si dica che il romanticismo appartiene solo all’universo femminile, che l’uomo debba essere quello che non deve chiedere mai, che debba vergognarsi delle sue emozioni. È l’asse portante del patriarcato che per fortuna non regge più. E che a bene vedere maschera una grande insicurezza». L’arma di FolleMente, per nulla segreta, è l’ironia. «Ci becca tutti, donne e uomini, sulle paure, le fragilità, gli imbarazzi. Nessuno è innocente. Dobbiamo imparare a perdonarci».
E a liberarsi delle regole. Soprattutto di quelle autoimposte. A cui è allergica Scheggia, la quota anarchica del gruppo, Maria Chiara Giannetta. «È la più imprevedibile di tutte, una scheggia impazzita, appunto. È la più complicata, la meno solare. Non vuole innamorarsi, non vuole concedersi. Non ha punti di riferimento precisi. È diffidente. Ma il film ci dice che “spegnere il cervello”, lasciarsi stupire, ci può fare bene. Lo dico per esperienza personale: impariamo a farci meno problemi. Non è che se uno o una ci dice che vuole prendersi un cane, dietro ci debba essere il retropensiero che è un invasore pronto a demolire le nostre certezze. Il film gioca con i cliché e li smonta. Invita a non aver paura di stare bene». A volte tocca proprio a lei essere la nota stornata. «Pensare che sul set, io che suono la chitarra ho dovuto suonare il basso. E mi è piaciuto così tanto che mi ha accesso una nuova passione».
Lo fa in una scena che è bene lasciare al godimento degli spettatori. Che – non è difficile da prevedere – ha tutte le caratteristiche per diventare una scena cult del cinema italiano.
7 febbraio 2025 ( modifica il 7 febbraio 2025 | 16:01)
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