Ilaria De Bonis – Città del Vaticano
Nel 2010 in Italia c’erano ancora 40.000 rom che vivevano nei campi e in 250 insediamenti formali e informali; nel 2021 questi ultimi erano scesi a 109 e i rom chiusi nei “ghetti” ammontavano a 17.800. Oggi sono calati ulteriormente: si va verso il superamento del campo e l’ingresso nelle case. La buona notizia arriva dall’Associazione 21 Luglio e dal suo presidente, Carlo Stasolla, intervenuto a un incontro in Campidoglio, lo scorso mercoledì 19 febbraio, sulla “seconda vita” dei rom in Italia. «Lo spartiacque è stato il 2018», conferma l’antropologo e attivista: «Da lì si sono incrementate le azioni di superamento dei campi, diminuzione degli sgomberi forzati e ingresso nelle case». Complici diversi fattori: dalla maggiore sensibilità delle amministrazioni comunali alla diminuzione dei discorsi d’odio. Questo è però anche risultato di anni e anni di intenso lavoro della 21 Luglio e della Chiesa cattolica, Fondazione Migrantes in testa, che spingono nella direzione della chiusura.
Una volta entrate negli appartamenti di edilizia popolare, le famiglie rom perdono la loro identità discriminata, dicono gli stessi protagonisti. Vengono guardate con altri occhi e la loro vita cambia totalmente. Come è successo agli Omerovic: Sara, suo marito e i cinque figli vivono in una casa popolare a Spinaceto (Roma), tra il Torrino e Tor de’ Cenci. Soggiorno con ampia cucina, piano rialzato con tre stanze da letto, un terrazzo, ogni comfort e due bagni: «La casa è dove ci puoi star largo — ci racconta Sara — dove puoi avere gli armadi per la roba dell’inverno. Casa è dove metti i piumini dei bambini e se ce le hai ti entrano anche 500 paia di scarpe! In una casa si vive tutta un’altra vita: sei più libero».
Il diritto a un’abitazione degna è universale e la casa spetta a tutti. Roma Capitale negli ultimi due anni ha fatto enormi passi in avanti, anche grazie al pungolo della 21 Luglio. «C’è la volontà politica. Mentre nel 2010 erano tredici gli insediamenti romani abitati da 7700 persone», spiega Stasolla, «oggi abbiamo cinque insediamenti in superamento: 1700 le persone ancora nei campi, includendo quello di Castel Romano, e si parla di un calo del 77 per cento». Nei container di Castel Romano le famiglie (anche quelle numerose, ossia la maggior parte) erano costipate in 20 metri quadrati. «Abbiamo sofferto tanto», ci racconta la famiglia di Sam e Marcu: «Abbiamo passato cose che non immaginate. I container di Castel Romano erano tutti storti, non reggevano il peso. Erano sbilanciati. I bagni sono esplosi nel giro di pochi mesi: eravamo in troppi; 900 persone sono tante. Quando mettevamo la testa sul cuscino la notte, sentivamo correre. Erano i topi che si muovevano sotto il container».
Per Stasolla i campi sono stati a tutti gli effetti una “istituzione totale”, luoghi di segregazione e privazione della libertà personale e collettiva. Al pari dei manicomi, dei penitenziari, dei campi di prigionia. Un’aberrazione simbolica e fisica, teorizzata dal sociologo canadese Erving Goffman negli anni Sessanta con Asylums. Pertanto chiuderli, anzi “superarli”, è un atto di giustizia: «Vorrei che ci fosse un’ammissione collettiva di responsabilità e delle scuse alla comunità rom da parte delle istituzioni», dice il presidente dell’associazione. L’ultimo campo chiuso a Roma senza ruspe e senza traumi è quello di via Cesare Lombroso che, neanche a farlo apposta, sorgeva a ridosso dell’ex ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà. «Ma ce li faranno portare via i gatti? Dove li mettiamo i gatti? Ce li portiamo nella casa nuova i gatti?», continuavano a domandare i bambini durante il periodo che ha preceduto l’uscita dal campo. «Arriveranno le ruspe come alla Massimina?», chiedevano i genitori a chi si avvicinava loro in quei giorni. Oggi queste cinquecento persone vivono tutte in appartamenti dignitosi fuori dal campo: case indipendenti, condomini o assistenze alloggiative. Ognuna di esse ha scelto la soluzione migliore per sé e per la propria famiglia. E il percorso prosegue con la prossima chiusura “indolore”: quella del campo di via di Salone. Anche lì gli abitanti, protagonisti del loro riscatto, stanno scegliendo la casa per iniziare una seconda vita.
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Di NewsBot