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Da venditore ambulante a killer spietato incaricato dei «lavori sporchi». L’idea è che «Roma sapesse, trattenendolo, dei rischi per le strutture dell’Eni, i lavoratori e qualsiasi italiano si trovasse nel Paese»
Almasri
Praticamente nulla è mutato nella vita del 45enne Nijeem Osama Almasri da dopo i due giorni di carcere a Torino, la liberazione il 21 gennaio e il «passaggio express» sul volo di Stato italiano direttamente per Tripoli. Da allora si reca regolarmente nel suo ufficio nel quartiere di Sabaa, vicino al carcere di Jdeida; incontra i colleghi della Rada, la più forte milizia della capitale; vede i vertici del governo.
In genere veste in borghese, ma per le occasioni ufficiali arriva con la divisa da generale-capo della polizia giudiziaria alle dirette dipendenze della magistratura e dello stesso Procuratore generale nazionale, Sadiq al-Sur. «Il generale è stato trattato coi guanti bianchi e accolto da eroe al suo ritorno. Tutti i maggiori dignitari del governo sono venuti a incontrarlo, alcuni già sulla pista dell’aeroporto. Qui è opinione diffusa che i massimi dirigenti a Tripoli abbiano premuto sull’Italia per ottenere il ritorno veloce di Almasri. Del resto, nessuno aveva dubbi che il governo di Roma lo avrebbe liberato. Se non lo avesse fatto, sarebbero stati ad alto rischio immediato le strutture dell’Eni, i lavoratori italiani in Libia e qualsiasi italiano si trovasse nel Paese, compresi i piccoli commercianti. La stessa ambasciata sarebbe stata presa di mira, anche con azioni violente», dicono al Corriere fonti molto prossime a questo che è uno dei pezzi grossi degli apparati militari in Tripolitania.
  
Investigare Almasri non è semplice. Gli ambienti ufficiali di governo fanno quadrato. I giornalisti locali evitano semplicemente di trattare l’argomento. La sua liberazione a Torino qui è stata registrata come pura cronaca. Il mandato di cattura della Corte Internazionale per crimini di guerra e abusi nelle carceri sotto il suo controllo non vengono raccontati. In Libia giungono solo echi ovattati del dibattito in Italia. «Meglio non esporsi. Se scrivi qualche cosa di non gradito o scomodo rischi la cella, o addirittura di essere rapito e assassinato», dice un collega libico che esige l’assoluto anonimato. Anche lui comunque ripete che «l’Italia non aveva alternative che rilasciare Almasri: altrimenti Turchia, Francia, Egitto e Russia si sarebbero spartiti i contratti italiani e in ogni caso qualche vostro cittadino sarebbe stato sequestrato per imporre lo scambio». 


E per dare forza al suo argomento cita alcuni tra le centinaia di messaggi minacciosi apparsi su TikTok e Facebook nei giorni dell’arresto. «Dite a Roma che ha 48 ore per ridarci Almasri, poi attaccheremo l’Eni», scriveva perentorio un certo Abdel Zak. «La loro ambasciata verrà distrutta», aggiungeva un altro.
  
La biografia di Almasri ricorda per alcuni aspetti quella di Abdurahman al-Milad, detto Bija, noto come comandante della guardicostiera libica e trafficante di esseri umani, coinvolto nelle trattative con l’Italia per evitare le partenze dei migranti e infine ucciso a mitragliate nel 2017.
Entrambi prima della rivoluzione e la defenestrazione di Gheddafi erano poveri venditori ambulanti. Bija prima del 2011 aveva una bancarella di frutta e verdura a Zawyah. Almasri vendeva invece polli e volatili al mercato degli animali di Tripoli ogni venerdì. Nel caos violento della guerra civile seguita alla fine del Colonnello, Bija crea la sua milizia privata legata alla guardiacostiera, fa soldi ricattando i migranti e controllando il traffico dei barchini verso l’Italia. 
Almasri, invece, nel 2014 entra nella Rada, la milizia emanazione del fronte islamico che domina nella capitale e più tardi contribuirà con le armi a fermare le truppe del generale Haftar. «La Rada lo utilizza per le operazioni sporche. Lui è un killer, deve eliminare gli indesiderati e per farlo assolda sicari e uomini col pelo sulla stomaco disposti a tutto reclutati tra i prigionieri rinchiusi nelle stesse carceri che è chiamato a dirigere», dice un’altra fonte nella milizia. 
Le vite di circa 15.000 carcerati in tre prigioni sono nelle sue mani. Nel carcere di Jedaida sono per lo più chiusi trafficanti di droga e criminali accusati di delitti gravi. In quello di Rueni si trovano migranti africani, oltre a arabi dei Paesi vicini, per lo più tunisini ed egiziani. Nelle celle di Al Maftuah ci sono invece pesci piccoli condannati per reati minori.
  
Per rendere più efficiente la sua attività Almasri negli anni contribuisce alla creazione di unità speciali, come la Brigata 42, che nel carcere periferico di Ain Zara gestisce quasi esclusivamente i traffici di migranti. Un sistema di potere complesso e articolato, che neppure l’attuale premier Abdul Hamid Dbeibeh è riuscito a smantellare. Alla sua elezione nel marzo 2021 questi sembrava determinato a farlo. Ma ancora oggi la sua sicurezza e quella del suo governo sono garantite dagli uomini armati di tre milzie maggiori: la Rada di Abdel Rauf Kara, che domina nel centro di Tripoli; la Brigata 444 di Mahmud Hamza nel sud sino a Tarhuna e Bani Walid e la Ghneiwa incaricata di Bab al Aziziah (l’ex quartier generale di Gheddafi), dell’aeroporto e altri poli cruciali. 
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Dicono a Tripoli: «Le milizie e in particolare la Rada sono veri Stati nello Stato. Nessuno può toccarle. Godono di sovranità e autonomia proporzionali alla loro forza militare e alla debolezza dell’autorità centrale. Chiunque voglia trattare con la Libia e operare sul territorio deve a un certo punto negoziare anche con loro».

7 febbraio 2025 ( modifica il 7 febbraio 2025 | 17:56)
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Di NewsBot