«A’ Robbe’, che c’hai ’na collana da prestarmi?»: lo dice Roberto Benigni in apertura di quella che doveva essere la serata delle cover, in cui finalmente parlavamo di canzonette, e invece è diventata la serata di una lunghissima giornata dedicata al gioiello di Tony, nonché la serata del quarto giorno del «Suca».
All’inizio della settimana, durante una conferenza stampa in cui il vicedirettore Claudio Fasulo rispondeva a domande sull’unica cosa che interessi ai giornalisti in trasferta sanremese – cioè: il peso del voto dei giornalisti stessi sul risultato finale – un uomo di televisione mi ha mandato un messaggio che qui ricopio: «Fasulo che parla di cose che conosce poco, non potendo dire l’unica cosa che vorrebbe: Amadeus suca».
Ieri mattina, quando Carlo Conti in conferenza stampa ha detto che lui non avrebbe risposto a nessuna domanda perché doveva andare ad accogliere un ospite che sarebbe stato a sorpresa sul palco ieri sera, cioè Roberto Benigni, mi è arrivato un altro messaggio: «Il jingle del festival è appena cambiato in: “Tutta l’Italia, tutta l’Italia: Amadeus suca”» (è tutto volgarissimo e mi scuso con l’incolpevole Amadeus, ma so che capirà il dovere di cronaca).
La questione è che Benigni è l’ospite che chiunque faccia la tv vorrebbe, e il suo agente Lucio Presta – l’uomo che ha fatto la fortuna di Amadeus e che è da lui stato poco cerimoniosamente scaricato prima del Sanremo 2024 – l’ha portato in dote a Carlo Conti, l’uomo col quale coloro che amano il mélo immaginano che Amadeus si senta in competizione.
A Conti andato, la conferenza stampa è stata avviata dal mio nuovo punto di riferimento, Antonella Nesi, cronista dell’AdnKronos, che – invece di chiedere come faranno a far vincere ’a qualità contro il televoto se non possono votare da uno a dieci (questione avvincentissima che aveva monopolizzato la conferenza stampa di giovedì) – ha domandato cosa diamine fosse successo con la collana di Tony Effe.
Era infatti accaduto che la sera prima Tony Effe si fosse in un’intervista detto stravolto perché, prima di entrare in scena, qualche zelante funzionario Rai gli aveva ingiunto di togliersi la collana. Collana che ovviamente era di uno sponsor (Tiffany), esattamente come tutto quello che indossa chiunque a Sanremo, che chi indossa fatturi o meno allo sponsor: nessuno si veste con qualcosa che si ritrovava in casa, nel mondo dello spettacolo del ventunesimo secolo, e nessuno si fa fare da un sarto di provincia abiti non riconoscibili.
Si riconoscono se si ha un minimo di contezza della moda, o si sanno perché vengono dichiarati sui social dei personaggi, gli autori dei vestiti di tutti, da Carlo Conti a Geppi Cucciari. Non è che posso sempre scrivere lo stesso pezzo, ma avevo già detto tutto l’anno scorso quando lo scandale du jour erano le scarpe di John Travolta, precedente che evidentemente ha reso paranoica la Rai.
Per stare a quest’anno, vale l’esempio che ha giustamente fatto la Nesi: e allora il collier di Damiano? Giuro che a quel punto Ciannamea, che poco prima aveva detto che 219 milioni di italiani avevano visto le prime tre serate del festival, Ciannamea che credo sia lì solo per farmi scrivere il duecentodiciannovesimo pezzo sul declino delle élite, Ciannamea ha detto serissimo: «Il discrimine è rappresentato dalla riconoscibilità del prodotto. Lei il collier di Damiano sa associarlo a qualcuno? Chi lo sa».
Cianna – faccio a causa della tenerezza un’eccezione, posso darti del tu, posso chiamarti Cianna? – il collier di Damiano, così come i guanti, era uguale a ciò che indossava Bianca Balti. Secondo te c’entra qualcosa che fossero entrambi in Valentino? E come la mettiamo, Cianna, con Achille Lauro in Dolce e Gabbana e ingioiellato Damiani? Ora, tu non riconosci Valentino e Bulgari e Dolce e Gabbana e Damiani, ma vuoi farci credere che riconosci Tiffany, neanche in uno dei suoi pezzi più noti? Cianna, non mentire ché Gesù piange.
Fatto sta che poi Mahmood ha spiegato l’ovvio, ovvero la dittatura degli stylist: uno pensa agli accessori per mesi poi arriva una funzionaria Rai in Gai Mattiolo e Pandora e gli dice «tu la collana te la togli» – è un trauma. Fatto sta che poi Tony Effe ha fatto una storia di Instagram taggando Carlo Conti e dicendo che se gli toglievano la collana la cover se la faceva lui. Fatto sta che poi Tony Effe è arrivato a cantare con al collo un pezzo Tiffany assai più riconoscibile di quello della sera prima (la collana a cravatta di Elsa Peretti), e io pagherei per una telecamera dietro le quinte che mi mostrasse il suo ok corral con la funzionaria di turno (mai un documentario di coppia quando serve: dov’è Prime quando il paese ha bisogno?).
Fatto sta che quando un rapper finto spietato incontra un conduttore vero democristiano il rapper porta a casa la sponsorizzazione, ma il democristiano gli ride in faccia, come ha fatto Conti indicando la collana. Effe ha bofonchiato «te sei sarvato» come i bambini cui la mamma l’ha data vinta: è stato un momento tenerissimo.
Non era l’unico minorenne, Effe (né l’unico con collier: quello di Achille Lauro era enorme): per la gioia di Carlo-innanzituttobabbo-Conti abbiamo avuto anche ieri la nostra quota di bambini che a quell’ora dovrebbero essere a letto. Questa volta non mostri che sanno tutti i nomi di tutte le vallette di Baudo né che sanno fare il piano bar (e vengono tenuti in braccio da Conti come fossero il corvo Rockfeller). Ieri i minori entravano sull’esecuzione di “Io sono Francesco”, canzone che ventiquattr’anni fa sembrò per un minuto l’inizio d’una carriera per il tizio che la cantava. Si chiamava (si chiama) Tricarico, ieri sera era sul palco a duettare con Francesco Gabbani e con, appunto, una pletora di minori che, quando Tricarico aveva un grande avvenire, non erano nati.
Tornando al democristiano che ride, ho l’impressione (impressione condivisa, direi) che nessuno abbia mai disprezzato i giornalisti quanto Conti, anche se è appunto democristiano e si è scusato perché quelli si sono offesi quando lui gli ha detto che l’anno scorso hanno fatto vincere Angelina Mango contro il televoto (poche cose sono più invise al giornalismo della verità).
Mi è tornata in mente quella scena che mi raccontarono d’un suo Sanremo dello scorso decennio. Lui che in albergo scende a colazione, trova un autore che legge un quotidiano, gli chiede cosa legga, quello risponde «Il fatto» e Conti senza malizia: «E che l’è?».
Poi – non oggi – bisognerà parlare dell’incapacità dei social (e di noialtri che conosciamo i nomi dei quotidiani) di capire il carlocontismo, quel paese che noialtri postmoderni ci illudiamo sia superato, ma che invece esiste ed è bello solido, abbastanza da concedersi il lusso di farsi prendere per il culo: arriva Geppi Cucciari e dice a Conti che lui è innanzitutto un papà, e lui non fa un plissé, perché a lui – come a decine di milioni di persone con cui non andiamo a cena e che non comprano i quotidiani – pare ovvio dire che i figli sono la cosa più importante. È una delle ragioni per cui Benigni ieri sera ha detto quelle verità che dicono i comici: «Dai retta a me, Giorgia ci sarà per diversi anni».
Geppi Cucciari, comunque, meno male che c’è. Meno male che grazie a lei le donne su quel palco hanno anche uno straccio di carattere, oltre al terrore di venir meno a un parametro estetico che fa stare una cantante con una gamba rotta in tacchi alti, che ogni volta che la vedo penso: poi ci meravigliamo dell’infibulazione. Certo che si può avere look e carattere: c’era una canzone di Loredana Berté su quel palco, ieri sera, e se non l’ha dimostrato tutta la vita lei. Certo che si può avere look e carattere: Geppi ha detto che un direttore d’orchestra lavorava troppo, e a me è tornato in mente il Sanremo 1999, e Laetitia Casta che, col tono da pornocugina dell’ispettore Clouseau, al millesimo annuncio di orchestra diretta da Peppe Vessicchio dice «ma è sempre luì».
Comunque: a Geppi presente, la quota seduttiva se la accolla Mahmood (per l’occasione sosia di Gabriel Garko), che ci concede sì e no dieci secondi di “Soldi” (forse miglior canzone italiana del secolo, finalista con “Il più grande spettacolo dopo il Big Bang”), perché pensa soprattutto a fare i balletti a torso nudo. Abbiamo cominciato al Sanremo 2022, con le vegliarde che lanciavano le mutande a Blanco, ed è finita così, che la quota menopausa all’ascolto pretende che il presentatore sembri uno spogliarellista in un all you can eat la sera dell’8 marzo. Per un attimo ho sperato si togliesse anche i pantaloni, e in un metaspettacolo restasse nudo in collier.
E poi sì, è stata la serata di “Bella stronza”, la cover di cui si parla da settimane perché ci piace illuderci di conoscere il dietro le quinte e quindi a chi la dedicherà Fedez, alla Ferragni, a quell’altra, alla depressione. Quando Masini ha cantato la prima strofa, con quel passaggio sui miliardari che ai sentimenti danno un prezzo, mi stavo quasi distraendo pensando ai collier di casa Ferragni. Poi però Fedez ha fatto ciò che aveva annunciato, cioè ha rappato dei versi (in analfabetese: delle barre) aggiunti. L’aveva già fatto con De Gregori, sono passati dieci anni e ancora mi sento male per quel «l’Italia del ’68 costretta a un 69», ma se sfregiava Masini m’importava meno: ero già troppo vecchia per i poster, quando uscì. Poi è arrivato quel verso che fa «ora siamo due estranei che si conoscono benissimo» e ho pensato vedi, però: se stai sveglia fino ad abbastanza tardi, scopri che persino Federico Lucia sa scrivere un verso che quasi me lo ricopierei sul diario. 
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Di NewsBot