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Il ciclista Ivan Basso, 47 anni, ha conquistato il Giro d’Italia nel 2006 e nel 2010, ha confessato alla giustizia sportiva di aver provato a doparsi, ha battuto un tumore. «Iniziai con un triciclo rosso, diventai un ragazzo prodigio. Ho vissuto 30 anni in apnea. Armstrong? Per me è un amico»
«Per capire quanto dura la felicità di un atleta bisogna contare fino a sei, scandendo bene i secondi. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. È il tempo che serve a mettere a fuoco il traguardo, tagliarlo e alzare le braccia. Quando le hai abbassate, la gioia è già scivolata via e tu cominci a chiederti se vincerai di nuovo, oppure è finito tutto lì».
Ivan Basso, 47 anni, ha conquistato un Giro d’Italia (2006), ha provato a doparsi (2006) ma si è fatto beccare subito dalla giustizia sportiva confessando tutto (2007). Ha espiato le sue colpe con una lunga squalifica (2007-2009), ha vinto di nuovo il Giro (2010), ha fatto quattro figli (dal 2003 al 2014) con la compagna di una vita Micaela e ha sconfitto il tumore (2015) che l’aveva costretto al ritiro. Dal 2016 sta cercando di risollevare le sorti di un ciclismo italiano in grave difficoltà con un team professionistico di belle speranze che ha costruito da zero, il Team Polti VisitMalta.


Il suo primo ricordo, Ivan?
«Un triciclo rosso. Me lo regalarono a quattro anni e mi cambiò la vita».
Come?
«Ero figlio unico in una famiglia complicata. Mia madre Nives e mio padre Franco gestivano una macelleria, confondevano vita e lavoro e litigavano tanto e sempre. Non capivo le ragioni delle loro discussioni, ma soffrivo le urla e le parole grosse che volavano per le stanze. Il triciclo prima e la bici poi furono le mie ancore di salvezza: per fuggire le urla andavo in fuga e trovavo la pace girando all’infinito in tondo nel cortile».
E poi?
«Poi ho continuato la mia fuga passando dal triciclo alla bicicletta da corsa. Prima gara a sette anni, vinta. Seconda il mese dopo nel mio paese, Cassano Magnago, vinta. Vincevo sempre. A quel punto capii due cose».
Quali?
«La prima è che mi sembrava di essere nato per pedalare; la seconda che i miei successi avevano un profondo effetto terapeutico sulla famiglia. Quando i miei venivano a vedermi, cioè ogni domenica, erano felici e non litigavano per giorni. La diligenza maniacale nel fare la vita del ciclista che mi ha accompagnato per tutta la carriera nasce inconsapevolmente da bambino per mantenere la pace tra i miei: temevo che se non fossi stato abbastanza concentrato loro sarebbero tornati a litigare. C’è chi comincia a pedalare perché si innamora di una bici bellissima nella vetrina di un negozio; io perché, pur essendo piccolissimo, volevo prolungare all’infinito quella tregua».
Anni belli?
«I più belli. La sveglia all’alba la domenica mattina, mamma che mi preparava filetto di manzo e riso in bianco, dal punto di vista dietetico una follia, ma per me una gioia. La bici sul tetto della macchina, la gara, il podio, il ritorno a casa con tutti che sorridevano, anche mia sorella Elisa, nata quattro anni dopo di me».
Capì di essere un predestinato dalle sue vittorie giovanili?
«L’ho capito l’8 giugno del 1994 quando la mia maestra delle elementari, che era la moglie di Miro Panizza, uno dei grandi gregari e scalatori della storia del nostro ciclismo, mi portò a Borgo Val Di Taro a vedere la partenza di una tappa del Giro d’Italia. Dal palco della presentazione scese Miguel Indurain, maestoso, altissimo, abbronzatissimo. Un dio. Venne dritto verso di me e mi mise il suo cappellino in testa. Era un’investitura, un segno inequivocabile della direzione che avrei dovuto prendere».
Indurain, il navarro che vinse cinque Tour de France ma si ritirò all’improvviso: il ciclismo si stava già liquefacendo per colpa del doping.
«Gli eroi di un bambino sono senza paura ma soprattutto senza macchia. Nessuna accusa avrebbe potuto mai distruggerlo ai miei occhi. E non c’era ostacolo che avrebbe potuto fermarmi. Inconsapevolmente, ero già nel meccanismo».
Quale?
«Quello della ripetitività ossessiva, del sacrificio totale. A otto anni come a quindici facevo già vita monacale, mi privavo di tutto quello di cui si nutre un bambino o un adolescente normale e che lo aiuta a diventare uomo: gioco, divertimento, amicizie. Io pensavo solo a diventare corridore, atleta».
Ad esempio?
«A otto anni montavo in mountain bike e mi infilavo nel fango perché volevo imitare il mio idolo Moser quando correva la Roubaix. A undici ho scalato l’Aprica, a dodici sono salito sullo Stelvio convincendo i miei genitori ad accompagnarmi a Bormio».
Vinceva tanto.
«Vincevo tanto, quasi tutto: persi un titolo mondiale tra gli juniores nel finale per una foratura, ma conquistai quello dei dilettanti arrivando da solo al traguardo. Venivo acclamato, conteso tra le squadre, coccolato dai tifosi. Ero il ragazzo prodigio che stava realizzando il suo sogno».
Il ciclismo è fatica e dolore. Non la spaventavano così giovane?
«La fatica è un concetto sovrastimato. La fatica la puoi allenare, come i muscoli. È faticoso eseguire un compito che non ti piace o non sei capace di gestire ogni giorno. Vale per un professionista ma anche per chi lavora in ufficio. La fatica però puoi fartela amica se superi i tuoi limiti mentali».
Come?
«Provate a immaginare una sfida tra due corridori su una salita durissima come lo Zoncolan o il Mortirolo. Si procede appaiati, le gambe e i polmoni bruciano, entrambi pensano di essere vicini alla morte, di non poter andare oltre. Poi a un certo punto uno dei due “muore” davvero sull’asfalto e all’altro sembra di volare. È tutto nella testa».
Fatica, dolore ma anche cavalleria e sfide rusticane. Quando vinse il suo primo Giro d’Italia, nel 2006, il suo avversario Gilberto Simoni dichiarò che lei gli chiese soldi per lasciargli vincere l’ultima tappa di montagna.
«Nel ciclismo il capitano cede tutti i premi in denaro ai compagni di squadra e allo staff. Io a Simoni dissi semplicemente che se l’avessi lasciato vincere avrei rubato quei soldi ai miei compagni che si stavano ammazzando di fatica per me. È una legge non scritta, ma andava rispettata».
Subito dopo quella vittoria lei viene coinvolto nell’Operacion Puerto, uno dei più grandi scandali della storia dello sport europeo. Cosa accadde?
«Contattai un medico spagnolo specializzato in trasfusioni…».
Vietate.
«Ovviamente sì. A Madrid mi feci prelevare due sacche di sangue che poi mi sarei fatto iniettare prima del Tour per avere globuli rossi più freschi e andare più forte. Ma in un’operazione investigativa della polizia spagnola trovarono le sacche congelate, mie e di altri, e associandole al Dna nelle banche dati della federazione mi identificarono».
Perché lo fece?
«Desiderio sfrenato, incontrollabile di vincere tutto. E consapevolezza che con quel metodo avrei potuto realizzare il sogno. Ero cresciuto in quel modo e nulla avrebbe potuto fermarmi, sapevo cosa stava succedendo ma non volevo rendermene conto. Pensavo di essere nel giusto».
Quindi lei non si è mai dopato?
«Non ho fatto in tempo. Ma so cos’ho fatto, riconosco le mie colpe, e mi vergogno. Ma ci sono motivazioni più profonde in quello che ho fatto».
Quali?
«Come quasi tutti all’epoca, non ero educato all’etica della vittoria e della sconfitta, anzi non avevo nessuna etica. Non pensavo certo di essere nel giusto, ma mettevo davanti al giusto ma anche alla mia famiglia la voglia sfrenata di vincere. Per questo oggi l’etica è la prima cosa che cerco nei miei corridori».
Nel luglio del 2006, due giorni prima della partenza del Tour de France, gli organizzatori la cacciarono dall’albergo di Strasburgo dove era in ritiro con la squadra.
«Scappai da una porta di servizio e cominciò una caduta inesorabile ma lentissima. A fine estate tornai a correre per qualche mese fino a quando non emersero prove certe e mi trovai davanti — l’anno successivo — ad Ettore Torri, l’ex capo della procura di Roma prestato all’antidoping».
E con Torri?
«All’inizio negai tutto ostinatamente. Poi lui trovò le parole giuste o meglio mi portò allo sfinimento. Ammisi ogni colpa, concordai un lungo periodo di squalifica. Torri era un duro ma pieno di umanità. Quando firmai la confessione mi disse: “Basso, un giorno lei capirà di non aver bisogno di queste porcherie”. Parole ripetute tre anni dopo, e non più in un tribunale».
Dove?
«Sul palco dell’Arena di Verona nel momento in cui vinsi il mio secondo Giro d’Italia. C’erano mia moglie, i miei figli, c’era Aldo Sassi, lo scienziato dello sport che fu l’unico a prendermi per mano e a guidarmi durante la squalifica. E si presentò anche Torri, il cacciatore di dopati. Mi disse: “Visto che avevo ragione?”. Essere coinvolto, smascherato in quell’operazione è stata la cosa più importante della mia vita».
Cos’è il Giro d’Italia che lei ha vinto due volte?
«È tutto. Averlo riconquistato all’Arena come Moser nel 1984, esserci riuscito dopo quello che era accaduto, è stato favoloso. Ma la felicità di un successo dura un lampo. Ero uscito dal circolo del doping, non da quello che mi incatenava alla mia prima vita».
Spieghi.
«Nel luglio 2015 sto disputando il Tour del France, a quel punto come gregario di Alberto Contador. Durante la tappa di Pau cado malamente. In ospedale con la Tac mi trovano un tumore ai testicoli in stato avanzato, da operare subito. Senza quell’incidente forse l’avrei scoperto troppo tardi. In quello stesso luogo, undici anni prima, un medico amico mi aveva telefonato dicendo che il tumore al pancreas di cui soffriva mia madre era allo stato terminale. Ho rivisto la mia vita, ho realizzato che un capitolo si stava chiudendo».
Lo stesso destino di Lance Armstrong, il Grande Bugiardo.
«Lance per me è l’uomo che — sopravvissuto a un tumore — inviò a sue spese un medico in Italia per provare a curare mia madre. Lascio agli altri il giudizio sulle sue bugie e sul suo doping, per me ha fatto una cosa enorme»
Crede nel destino?
«Evidentemente sì».
E in Dio?
«Credo nell’aldilà, in un aldilà sereno dove magari sarò finalmente in pace con me stesso. Adesso per fortuna ho smesso di considerare anche Dio come funzionale alla mia carriera e al mio successo».
In che senso?
«Da atleta la notte dovevo dormire almeno otto ore per essere al top e non sempre era facile. Così mi ero inventato un rosario personale quasi blasfemo, recitando Ave Maria, Padre Nostro ed Eterno Riposo, fino a quando crollavo».
La «morte sportiva», il ritiro, è difficile da accettare?
«Arriva lentamente. Per trent’anni ho corso in apnea, cieco e sordo: non vedevo le montagne, non sentivo il tifo, pensavo solo a vincere. A un certo punto mi sono accorto che percepivo nitide delle voci, quelle di chi gridava “Dai Ivan che davanti non sono lontani, li puoi ancora prendere”. Da inseguito ero diventato inseguitore. Sentivo gli applausi dei bambini davanti alle scuole e pensavo ai miei, di bambini, che in quel momento erano a lezione. Così ho capito che ero al capolinea, che dovevo ricominciare una nuova vita. Non avevo valutato che sarebbe stato così difficile».
Perché?
«Non si spegne una carriera con l’interruttore. Mi sono buttato nell’avventura della squadra a capofitto, con ritmi più serrati di quelli di prima, con il mio vecchio compagno Alberto Contador. Invece degli allenamenti e dei ritiri c’erano viaggi di lavoro, riunioni, contatti con gli sponsor. Prima avevo un team che mi supportava, adesso ero io il supporto. Poi è saltato tutto».
Come?
«Con mia moglie da anni abbiamo in piedi un’azienda agricola, nel Varesotto: coltiviamo mirtilli. L’anno scorso Micaela di punto in bianco mi chiese di sedermi sotto il pergolato e cominciò a parlarmi. È andata avanti due ore, rovesciando la mia e la sua vita senza mai umiliarmi. Alla fine era tutto chiarissimo».
Cosa?
«Il mio fallimento come padre e marito. I miei quasi quarant’anni in apnea, le mie mancanze, i miei tradimenti ai doveri della famiglia, la scomparsa di ogni intimità tra me e lei. Ho capito che non avevo mai spento l’interruttore, che ero ancora l’atleta miope, ossessionato dalla voglia di successo che non vedeva altro nella vita. È stato profondo, violento, terapeutico. Ho ucciso l’Ivan Basso atleta e tirato fuori finalmente l’uomo».
E adesso?
«Mio figlio Santiago è appena passato professionista. Fa il mio stesso mestiere, non veste la maglia della mia squadra, non lo alleno io, si farà strada da solo se ne ha i mezzi. Io e Micaela proviamo gioia pensando che lui lavora in un mondo molto più etico di quello in cui vivevo io, che non ha la minima idea di quello che ci circondava e ci tentava alla sua età».

23 febbraio 2025 ( modifica il 23 febbraio 2025 | 06:42)
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Di NewsBot